Epic 1991
1. Once
2. Even Flow
3. Alive
4. Why Go
5. Black
6. Jeremy
7. Oceans
8. Porch
9. Garden
10. Deep
11. Release
2. Even Flow
3. Alive
4. Why Go
5. Black
6. Jeremy
7. Oceans
8. Porch
9. Garden
10. Deep
11. Release
Parlare di un album sedici anni dopo la sua uscita non è un’impresa semplice, soprattutto quando il disco in questione è stato recensito da decine di critici, indubbiamente più abili di me nel fare un mestiere che non è il mio. Di Ten dunque si è detto tanto e, a mio avviso, a volte anche troppo. Quando infatti leggevo o sentivo nelle interviste frasi come “Ten è il disco cardine dell’epoca grunge” e subito dopo “Ten non è assolutamente un disco grunge” mi sentivo smarrita, se non addirittura presa per i fondelli da giudizi così antitetici. Tuttavia, nel momento in cui la mia misera cultura musica è diventata un po’ meno (ma non tanto!) misera, ho capito che quelle frasi non erano una presa in giro ed incredibilmente potevano essere considerate entrambe vere, perché grunge è tutto e non è niente e l’unico sbaglio che si può fare è considerarlo un genere musicale.
Partendo quindi dal presupposto che grunge è una parola inizialmente usata per riassumere la bruttura di una città (Seattle) o in generale di una società che nei primi anni Novanta non se la cavava tanto bene (e che per questo partoriva figli incazzati come bisce), è quanto meno azzardato scindere Ten da questa sorta di movimento culturale.
I quattro quinti della band, infatti, cresciuti musicalmente parlando a Seattle, si erano formati secondo le esigenze di quella realtà, che non richiedeva più sintetizzatori e belle testoline permanentate, ma batteria, basso, chitarra e una voce che potesse gridare tutta l’insoddisfazione del momento. Persino l’aspetto tecnico dello strumento era messo in secondo piano a favore di un impatto violento con il pubblico.
Sebbene, dunque, non sia corretto estrapolare il disco dal contesto in cui nasce, non è altrettanto giusto volerlo incasellare a forza nei canoni più ristretti del grunge. Prima di tutto, il livello tecnico che lo caratterizza non è affatto trascurabile, (nel senso che i pezzi di Ten non li impari subito dopo “La canzone del Sole” al corso di musica); ci sono assoli di chitarra lunghi un vita; l’influenza del metal è solo marginale ed è completamente assente quella del punk, due generi invece che incidono profondamente su altri gruppi come gli Alice in Chains e i Nirvana; infine i testi, affidati principalmente a Vedder (il vocalist benzinaio nato a Chicago e cresciuto a San Diego, due città che poco incastrano con il grunge), non sono elementari e la loro comprensione non è mai scontata o addirittura univoca.
Non ha senso quindi illustrare il significato delle canzoni presenti nel disco. Si è parlato di killer, senza tetto, ragazze violentate o rinchiuse in una clinica dalla propria madre, ragazzini impazziti, amori sfumati nel nero e preghiere ad un padre che, morendo, ha lasciato dietro di sé un figlio sconvolto, ma il fatto che queste siano le spiegazioni più diffuse dei vari brani non significa di certo che siano le uniche o quelle giuste. Lo stesso Vedder parla raramente del contenuto dei suoi testi proprio per non rovinare l’interpretazione che la gente da loro.
Le parole sono immerse in una musica composta essenzialmente da Gossard (chitarra) e Ament (basso) e poiché esce dalle casse in modo semplice e duro, senza lasciare spazio a sperimentalismi, alcuni hanno parlato di “monotonia sonora” come unico difetto (veniale) di Ten. Le prime quattro tracce sono puro rock, dove le due chitarre intrecciano e si scambiano riff graffianti, tirati a tal punto da farti rimanere senza fiato. Successivamente il ritmo si placa con Black, Jeremy (due ballate memorabili) e Oceans, per poi riprendere il volo con Porch, fino a toccare punte metal in Deep. Release è la canzone che conclude la versione americana del disco e qui lo strumento che domina su tutti è la voce di Vedder, talmente profonda da riuscire a toccare e scuotere anche chi di inglese non ne capisce niente.
Molte volte mi sono fermata a riflettere perché ami tanto Ten e in generale tutta la discografia dei Pearl Jam. Per me è davvero una fatto strano perché il panorama della musica che si presenta alla fine degli anni Ottanta e in quelli Novanta non mi fa impazzire: sono pochi i lavori degni di nota e tutto il resto è noioso, se non addirittura la prova di una crisi in atto e che sfocerà nella situazione attuale.
I tempi d’oro della musica, a mio parere, vanno cercati alla fine degli anni Sessanta e in quelli Settanta... Quindi perché proprio i Pear Jam?
Da sola non ero in grado di dare una spiegazione, è stato istintivo, un amore a primo ascolto o quasi. La risposta mi fu data da un tipo in televisione, non ricordo se era un produttore o un musicista, in ogni caso nell’intervista che stava rilasciando affermò che il primo disco dei Pearl Jam era già vecchio al momento della sua uscita. Ascoltava quei brani e gli venivano in mente gli Who, i Led Zeppelin, Neil Young; guardava i loro concerti e rivedeva l’hard rock dei mitici ‘70. Molti possono interpretare queste parole come una critica, sembrano quasi affermare che l’originalità del gruppo è zero. Ma per me significano che i Pearl Jam sono la macchina del tempo in grado di riportare la gente a momenti “migliori” e in questo caso è il più bel complimento che si possa ricevere.
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